Il tentativo di Giancarlo Sepe di fondere il cinema con il teatro,con i personaggi ideati da Pierre Boileau e Thomas Narcejac
Il teatro che dialoga con il cinema non è una novità, soprattutto in questo ultimo periodo. Giancarlo Sepe che in questa edizione del Napoli Teatro Festival propone lo spettacolo Sudori Freddi si dichiara perfino entusiasta, come scrive nelle sue note di regia, della potenzialità di questo scambio tra modalità artistiche: “Che suggestione trattare dei temi legati ad un grande film! Di colpo il teatro sembra potere contenere nei suoi spazi angusti le geometrie e le prospettive di un set cinematografico, le strade di San Francisco con i suoi saliscendi, i pedinamenti fatti ne museo nazionale o al cimitero della città, insomma un sogno”. Il cinema di cui parla è quello di Hitchcock e per la precisione de La donna che visse due volte, tratto dal romanzo del duo Pierre Boileau e Thomas Narcejac. La parola che usa Sepe suggerisce la possibilità di una lettura appropriata del suo intervento tra letteratura e cinema: suggestione. E così, per fortuna, lo spettacolo (almeno in parte) si emancipa da una intertestualità tra immagini del film e spettacolo, tenendo comunque in una certa considerazione il testo letterario, ma lasciando voce a dimensioni teatrali.
Il cinema entra nel teatro di Sepe attraverso le atmosfere create da una scenografia articolata (da Carlo De Marino) tra specchi, rimandi, porte che si aprono in secondo piano a sorpresa a (cercare di) creare suspance, un intero tetto scenario di camminate rocambolesche e di cadute altrettanto rocambolesche, pienamente sostenuta dal piano luci di Marco Laudando. Su tutto domina il noir. In tutti i sensi, perchè di un giallo pur sempre si tratta, ed il cupo confondersi degli eventi spezzettati in scene trova armonia solo nel finale che risolve il conflitto, lasciando aperto un dubbio sulla autenticità della/e protagonista/e: è Madelaine o Midge?
La trama si manifesta lentamente per scene. Ombre e luci, brevi dialoghi. Tutto inizia con Gévigne (Guido Targetti), qui una specie di presentatore dei fatti anche ventriloquo, a cui è affidato il compito di chi racconta i fatti dall'esterno. Poi la storia che si costruisce e confonde (forse troppo), un po’ tra fili che si dipanano, un po’ riferendosi a una trama già nota a chi ha visto il film. Lei, con il vestito speciale da diva, lei fantasma. L’altra lei, quella che nella finzione imbastita dal marito (interpretato sempre da Guido Targetti) finge di essere Madeleine (Lucia Bianchi ) di fatto uccisa, mentre invece è Midge (Federica Stefanelli) travestita da Madelene per dare corpo alla commedia tragica della sua morte accidentale con testimone Flaviéres (intanto innamorato cotto di Madelene-Midge). Mentre i corpi verranno poi sostituiti, la finta Madeleine finge una morte accidentale con testimone Flaviéres che intanto si è innamorato della finta Madeleine... fino al loro rincontro che dà voce al vero amore tra i due. Un intreccio che nel racconto teatrale si chiarisce man mano in frammenti che si ricompongono.
Lo spazio è articolato in almeno tre dimensioni: anteriormente, chiuso da un telo movibile; la scena con le sue porte e specchi, entrate laterali e possibilità di arrampicarsi; il fondo che si apre come una piccola telecamera su un tetto, da cui salgono, camminano e se necessario scivolano. E le immagini di tutti loro che camminano sul tetto e poi pian piano cadono chiude la storia, lasciando la parola all’ultimo dubbio su chi fosse la vera Madeleine. Il susseguirsi per immagini richiede una prontezza particolare da parte degli attori, che in generale si mostrano affiatati, come nella performance sulla musica di Ne me quitte pas di Jacques Brel, in uno spettacolo che nel cercare di unire sistemi di riferimento e di costruzione tecnica così diversi, aspirando apertamente ad un afflato visionario, rimane tuttavia a metà del guado, laddove non è l’emozione a fare da protagonista, nonostante i temi trattati, e nemmeno gli effetti scenici tentati ed a volte anche riusciti. Forse un effetto dello spezzettare ed assemblare sequenze, la cui bellezza formale accattiva più del rimando emotivo. E di certo, anche del difficile confrontarsi con un genere e con un certo Hitchcock che per tutta evidenza aleggia nel buio.